giovedì 21 maggio 2015

Il mondo del Dott. Segreto. Seconda parte.

Dopo la nostra visita alla Casa del Suono usciamo al sole, giusto un attimo per attraversare il piazzale ed entrare alla Casa della Musica, uno stupendo palazzo rinascimentale che ospita la Sezione di Musicologia dell'Università di Parma, con una biblioteca mediateca di circa 20.000 volumi, l'archivio storico del Teatro Regio, il museo multimediale sulla storia dell'Opera e numerosi spazi dedicati ad attività musicali e concertistiche, tra cui uno splendido Auditorium (è qui che Vincenzo mi farà il grande regalo di cui già sapete, invitandomi a posare le mie rozze manacce su uno Steinway & Sons Gran Concert, occasione più unica che rara per la totalità dei comuni "pianai" come me).
























Ma il motivo ufficiale della nostra presenza alla Casa della Musica è il concerto di Marcin Dylla, uno dei più autorevoli interpreti della chitarra classica.
Premetto che le mie conoscenze di questo strumento e dei suoi repertori sono assolutamente superficiali, quindi mi limiterò ad alcune riflessioni personali sul concerto.






















Ascoltare un grande concertista classico stando in prima fila a tre metri di distanza, in una sala di dimensioni contenute con un'ottima acustica, è una esperienza sorprendente. In questi casi parlare di tecnica inappuntabile e assoluto controllo dello strumento è superfluo. Marcin Dylla è un grande maestro che ha vinto i concorsi più prestigiosi. Definito dalla stampa come "uno dei più dotati chitarristi del pianeta", esprime doti musicali che vanno ben oltre il dato tecnico.
La prima cosa che si coglie, fortissima, è la tensione continua verso la perfezione sonora, in un rapporto fisico e psicologico con lo strumento che non viene mai meno. Respiri, contrazioni del volto, sussulti, movimenti controllatissimi che sfociano in gesti quasi teatrali, tutto è finalizzato alla ricerca dei tempi esatti e alla giusta valorizzazione ogni singola nota della partitura, in una dimensione rituale quasi religiosa. E' questa una disciplina ferrea che non concede possibilità di errore, ma in cui un grande interprete deve trovare una sua visione personale e accompagnare il pubblico senza esitazioni lungo una strada tracciata e provata passo passo migliaia di volte, eppure mai identica.
Una sfida che appare quasi sovrumana per chi è più avvezzo ad altri contesti musicali, come il jazz, il rock o la musica popolare, dove tutto sembra ampiamente soggettivo e modificabile secondo l'estro del momento. Due mondi musicali profondamente diversi che proprio in questo rivelano le loro differenti radici. Da una parte la musica colta nata in Europa, concepita in scuole e accademie che nei secoli hanno evoluto i loro canoni estetici, ma conservando una concezione trascendentale di purezza sonora che ha reso necessarie forme sempre più precise di notazione scritta. Dall'altra le musiche prevalentemente funzionali di tradizione popolare, tramandate a orecchio o per imitazione e aperte a innumerevoli influssi, accomunate in varie parti del mondo da una libera concezione dove il suono è un tramite e non un fine.
Il grande Leonard Bernstein, che più volte nelle sue opere ha messo in comunicazione i due mondi, evitava ogni definizione di valore parlando semplicemente di musica scritta ("esatta"), e musica non scritta, alludendo alla fondamentale differenza tra la scrittura musicale intesa come vera e propria tecnica di composizione colta e il semplice atto conclusivo pro memoria di una composizione estemporanea, ma non per questo meno rilevante (trovo che questa distinzione sia ancora la più chiara e attendibile, oltre che "democratica").
Proprio questo mi ha colpito nel concerto di Marcin Dylla, la padronanza di brani caratterizzati da una scrittura colta assai complessa, che concede poco all'orecchiabilità o agli stereotipi più diffusi del chitarrismo classico, ma eseguita con intensa passionalità e assoluta autorevolezza, senza mai scadere in un freddo tecnicismo di mestiere.

Naturalmente non abbiamo una documentazione video del concerto, ma vi propongo questo video registrato all'Accademia musicale di Katowice (Polonia) in cui Dylla esegue uno dei brani proposti a Parma.



Aggiungo a corredo quest'altro video più orecchiabile (ma anche curioso e divertente per noi cookers chitarromani!) in cui "magicamente" Dylla esegue un classico su sei diverse chitarre. Un confronto interessante che mette in evidenza le differenti risposte timbriche di sei grandi strumenti al tocco del Maestro.




Non mi rimane che ringraziare di cuore il Dott. Segreto l'amico (e cooker!) Vincenzo per averci regalato tutte queste meraviglie.




18 commenti:

  1. Che dire.. sono rimasto senza parole, quella della chitarra classica è tutta un'altra dimensione, affascinante, struggente e intensa..
    In quel contesto per voi deve essere stata un'esperienza indimenticabile..
    ;-)

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  2. Queste tue impressioni non fanno che aggiungere dei + ad un esperienza che già mi sembrava più che positiva , quasi formativa. Le parole di Bernstein , da te così ben citate , sono forse la legatura , il bending tra noi semplici appassionati e le alte sfere della musica , quella musica di cui , come per il maiale , non si butta mai niente !!!
    Credo fortemente che lo studio e le tecniche siano una parte basilare e , forse , imprescindibile di chi si mette sul cammino musicale , ma altresì ogni tipo di manifestazione sonora , sia essa di strada , da aia contadina , da campo di cotone , sia degna di esserci e sullo stesso piano se consideriamo la musica , proprio perchè arte , un atto di condivisione. Ed un modo per migliorarci la vita :-)))))))
    p.s.
    la benevola invidia che avevo per questa vostra esperienza continua benevolmente a crescere eheheheheheh

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    1. Be' aggiungo, per onestà, a quanto scritto da Mirco che del concerto chitarristico ho capito solo quella parte più "classica" mentre delle partiture moderne, ho afferrato ben poco, se non l'impressione di una difficoltà tecnica mostruosa tale da condizionare e assorbire la vita stessa del concertista. Una vita di sacrificio, passata a studiare insomma. Non alla portata di tutti e, come ha mormorato Vincenzo, "non proprio invidiabile".

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    2. In effetti è una vita di enormi sacrifici, che può ripagarti con enormi soddisfazioni, ma anche con molto stress...

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  3. p.s. il capoccione rotondo sulla destra devo essere io (una foto abusiva del dott. Segreto? ahi ahi ahi....)

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    1. l'avevo intuito....sembri l'inventore pazzo dei cartoni animati uahuahuah

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  4. Riflessioni degne di nota, solo mi domandavo, leggendo anche il commento di Max, se una esibizione musicale, riesce a far trasparire, la tecnica, e la difficolta` di esecuzione, ma non coinvolge l'anima di chi ascolta.. e definibile come arte? Intendiamoci, non e` una critica, ma solo una riflessione che mi e` venuta, voglio dire, forse per capire, un certo tipo di musica, bisogna avere la preparazione culturale, ma a questo punto mi sorge un'altra domanda, ma un artista, non dovrebbe arrivare a tutti, a prescindere dalla preparazione di chi lo ascolta? Nel senso, se guardo un dipinto, e mi pongo nelle condizioni di guardarlo e non solo di vederlo, questo mi suscitera` delle emozioni, siano esse positive o negative, e a prescindere dalla mia preparazione, non dovrebbe essere lo stesso per la musica? Ovviamente le mie sono solo riflessioni che prendono spunto da cio` che ha scritto Max, e non intendono sminuire affatto l'esperienza vissuta da voi tre e sopratutto il concerto al quale avete assiztito, diciamo che uno spunto per riflettere insieme :-)))

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    1. Non è che ogni espressione artistica arriva sempre e comunque a tutti, ogni linguaggio prevede che l'ascoltatore abbia un minimo di conoscenze di quel linguaggio, così pure il linguaggio artistico. A questo servono, ad esempio, le guide nei musei. Se osservi un'opera senza saperne nulla puoi avere solo delle impressioni, ma se qualcuno ti dà dei riferimenti o ti spiega certi dettagli, allora ti si apre un mondo. Può anche capitare di provare forti emozioni di fronte a un'opera di cui non sappiamo nulla, ma in realtà è perché abbiamo trovato un minimo aggancio con la nostra esperienza, quindi con qualcosa che in realtà sappiamo! (poi magari il riferimento è pure sbagliato, però ci emoziona!).
      Certe forme d'arte usano un linguaggio complesso o poco diffuso (o che non è minimamente famigliare per noi), quindi non troviamo i riferimenti necessari, cioè non siamo abbastanza preparati.
      Questo non vuol dire che quello che non ci piace o ci lascia indifferenti sia sempre fuori dalla nostra portata, a volte è proprio brutto o insignificante, ma per esserne consapevoli ci serve un minimo di esperienza.
      Anche io, come il Rev, ho trovato piuttosto difficile il repertorio suonato da Dylla (a tratti troppo difficile per me), infatti ne ho colto solo aspetti marginali.
      D'altra parte non mi stupisco se un "metallaro" incallito trova pallosissimo Tommy Emmanuel :)))

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    2. Quando ascolto e non arrivo a capire, è molto probabile che l'inadeguatezza sia tutta mia. Studiare, da che mondo e mondo, è sempre servito a fare propri gli strumenti per la comprensione delle cose. E su questo purtroppo non ci piove.

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    3. A volte (per la verità abbastanza spesso) capita pure che ci convincono che non riusciamo a capire perché non siamo abbastanza preparati, poi se diradi il fumo scopri che le cose che ci sembravano semplicemente brutte o sbagliate sono realmente brutte o sbagliate! Ma anche per diradare il fumo bisogna saperne almeno un po'.

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  5. Domine, non sum dignus! (e altre amenità…). parte prima

    Dopo aver letta la seconda parte del reportage del nostro amico Perry (e dopo averlo ringraziato dapprima privatamente, e ora anche pubblicamente – così come il Reverendo prima di lui, in ordine cronologico - per la briga che si è presa, ringraziamenti che lui ha già rintuzzato con la cortesia usa a noi cookers, che abbiamo anche questa qualità) volevo dare qualche piccola precisazione e anche qualcos’altro.
    Dunque, Non sono il direttore o il coordinatore o quant’altro della Casa della Musica (nonostante il dott. Segreto sul quale il Gatto e la Volpe hanno, senza troppo farla pesare, glielo concedo, ironizzato): ufficialmente ne sono il responsabile della Stampa e Comunicazione e anche, nonostante il tanto (e spero buono) che facciamo, siamo quattro gatti, anche di qualche progetto particolare, mostre, rassegne musicali e cinematografiche, e soprattutto (per la fatica e lo stress che mi è costato, ma anche per la soddisfazione che m’ha dato) del restauro strutturale e anche del nuovo progetto espositivo del Museo Casa natale Arturo Toscanini (che pure fa parte, ed è gestito, dalla Casa della Musica). Questo, per dire la verità.
    Poi: dato che ci ho lavorato per farla nascere (ed eravamo in ancor meno, ma c’erano compagni di viaggio più bravi di me nei ruoli chiave) sono molto orgoglioso quando persone cui tengo la scoprono e ne rimangono favorevolmente impressionati: come i nostri due amici nella loro troppo breve gita di qualche giorno fa. Per questo volevo dirvi che sarò lieto di accogliere quanto meglio mi sarà possibile, e se mi sarà possibile, tutti gli amici che passeranno da Parma (e più ancora quelli che ci verranno apposta) e vorranno venire a scoprire la Casa della Musica e le sue bellezze.
    A questo riguardo, poi e in fine, già Perry e il Reverendo hanno insinuato il pensiero che Parma, la Casa della Musica, e il ristorante che ci ha visto felicemente concludere il nostro “faticoso” giorno, potrebbero essere un luogo prima di tutto comodo, ma anche divertentemente significativo per un ritrovo extra Sarzana, se ne volessimo fare uno in inverno, per esempio: anche io butto lì quest’idea, conscio che sono di parte che di più non si potrebbe, ma anche che queste motivazioni sono reali.
    In fine (e per davvero) per quanto riguarda le considerazioni derivanti dal concerto, e che già hanno trovato qualche considerazione molto interessante nel breve dibattito già espresso, temo di non riuscire a essere di troppo aiuto a dipanare temi che già così, dopo solo alcune brevi riflessioni, individuano delle problematiche molto generali.

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  6. Domine, non sum dignus! (e altre amenità…), parte seconda

    Ho lavorato al Teatro Regio da quando avevo vent’anni, e quando ancora dovevo laurearmi in musicologia, per quasi 25 anni, vivendo e lavorando praticamente tutti i giorni a contatto con artisti grandissimi, cantanti, direttori d’orchestra, registi, strumentisti, e quando non ero a teatro per il mio lavoro, ero in giro in altri teatri per recensire concerti (che è il mio secondo); poi ho lasciato il Regio per il nascente progetto della Casa della Musica, che ancora mi affascina. È a causa, e grazie, a questo lavoro, e alle opportunità (non vi parlo delle fatiche e dei patemi, però) che esso mi ha dato, e soprattutto al fatto che a ogni “fatto” artistico era collegato - perché ci lavoravo dentro, o perché lo dovevo “giudicare” con le mie critiche - un momento di riflessione molto arricchente, ma anche molto faticoso, che non posso dire non mi abbia segnato, e non abbia segnata la mia vita e il mio modo di pensare alla musica (purtroppo anche al mio modo di suonare, ma questa è un’altra “puntata”) il mio modo di relazionarmi agli artisti e ai concerti capisco che sia un po’ sghembo. La faccio breve: a forza di vivere insieme a loro e di confrontarmi con loro (e spesso venendo usato come uno specchio, con una responsabilità a volte schiacciante) ho imparato a conoscerne la forza e le debolezze, le grandezze e le piccolezze (oltre che ad ascoltare con le loro orecchie, che non è poco). Ed è per ciò, a causa o grazie a ciò, che alcune cose che per anni mi hanno colpito, la bravura tecnica per esempio (ho udito cose… e non solo a teatro, ma a tu per tu, in una stanza d’albergo o in camerino, lungo ore di prove che neanche un galeotto…), o la bella voce o il gran suono, non mi colpiscono più: mi colpisce ancora, solo e sempre (grazie a Dio, spero per sempre) il mistero della musica, che mi prende a tradimento quando meno me lo aspetto, in un fraseggio, in un legato, in un timbro, nel modo che hanno certi artisti di farmi ri-scoprire una composizione che credevo di conoscere, di aprirmi il cuore e la mente a mondi nuovi da amare, ad alzarmi da un mondo che spesso ci fa dimenticare quanto è stupefacente avere qualcosa di grande da raggiungere e da capire, dentro e sopra di noi: perché la grande arte è quella che ci fa uscire da noi stessi, o che ci fa capire quanto c’è di grande in noi stessi, quando ce ne dimentichiamo, o ce lo fanno dimenticare.
    Per finire, non sento più chitarristi o cantanti o pianisti: sento solo musica, e musicisti. Quando è possibile, finché è possibile.
    Scusate questa piccola digressione-confessione (molto o.t.): tra amici…
    Salute, e saluti! (e a rivederci a Parma: vi aspetto!)

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    1. la tua digressione, non è affatto O.T. ma credo che sia veramente ficcante, e colga il senso vero della nobile arte della musica, e si riallaccia (spiegando i miei dubbi), al mio commento più in alto ;-)

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  7. Che bello leggere queste pagine, questi commenti, qui su Fingercooking! Scrivete benissimo e sapete trasmettere con le vostre parole le emozioni suscitate da un concerto ... a dispetto di chi sostenne che parlare di musica è come ballare di architettura.
    Mentre scrivo ascolto l'esecuzione sublime delle variazioni sulla follia di spagna e penso che da una vita non ascolto un concerto per chitarra classica ... mi sarebbe piaciuto essere lì con voi.

    Approvo alla grande la proposta di un cookeraduno invernale a Parma, quando lo facciamo?

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